Non dite: “Se l’è cercata”
Nella notte tra lo scorso 29 e 30 giugno a Roma, in un quartiere considerato generalmente tranquillo, un’adolescente è stata violentata da un uomo che, fingendosi un poliziotto, la avrebbe allontanata dalle amiche con cui si trovava e ne avrebbe abusato sessualmente, minacciando di ucciderla se si fosse ribellata o avesse gridato. Il presunto responsabile della violenza è stato arrestato poco tempo dopo. Si tratterebbe di un marinaio calabrese di 31 anni.
Le notizie che riportano atti di violenza e abuso sessuale sono sempre sconcertanti. La gravità del gesto, il dolore che si nasconde dietro ai titoli dei giornali non trovano mai espressione adeguata, tale da poter descrivere il baratro che si apre di fronte ad una esperienza del genere. Per la vittima, per le persone a lei vicine, per i cittadini che si scoprono toccati loro malgrado, dalla possibilità di un male inaudito e inspiegabile, e spesso, di conseguenza, dalla paura. E tuttavia, come spesso accade quando le notizie sono esposte al commento dell’opinione pubblica, non mancano le reazioni che rendono un fatto tanto drammatico ancora più amaro.
Ancora una volta, infatti, non sono mancati i rimbalzi di commenti sarcastici o inquisitori di coloro che attribuiscono la responsabilità dell’evento alla ragazza. Perché se una giovane se ne va in giro, di notte, con le amiche, in qualche modo “se l’è cercata”. Sicuramente era vestita in modo da “provocare” l’aggressore. Anzi, probabilmente gli ha fatto intendere che, in fondo, sarebbe stata consenziente.
Vi sono due piani su cui queste considerazioni vanno contestate. Il primo è quello dell’ovvia evidenza per cui sostenere che una donna che subisce violenza “se la sia cercata”, magari perché ha trascorso una serata con le amiche a guardare i fuochi d’artificio (come in questo caso), equivale ad affermare che andare per strada con una borsa a tracolla è un modo per “attirare” i borseggiatori, e che chi subisce un furto, in fondo, “se la sarebbe andata a cercare”. Un qualsiasi atteggiamento anche incauto o ingenuo non può mai legittimare o giustificare la violenza e il crimine. Soprattutto quando, come in questo caso, sono esercitati da qualcuno che si trova in innegabile posizione di potere rispetto alla vittima, per età, ruolo e corporatura.
Ma c’è un secondo piano, più delicato e urgente, che chiama in causa la responsabilità di tutti rispetto alla tutela e alla prevenzione degli abusi. È una reazione diffusa tra le vittime di abuso sessuale, infatti, quella di colpevolizzare se stesse. È un’altra delle terribili ferite, oltre all’evidente violenza fisica, inferte dall’aggressore alla sua vittima. In questo caso, poi, non siamo solo di fronte a una violenza sessuale, ma anche a una violenza su una minorenne, in cui alla superiorità fisica dell’aggressore è stato aggiunto l’indiscriminato abuso di potere che l’aggressore ha esercitato fingendosi poliziotto. Il coro di voci che si sollevano contro la ragazza, accusandola di avere in qualche modo favorito la violenza, di aver agito in modo da “causarla” o “provocarla”, non fa che reiterare il male compiuto dall’autore diretto dello stupro. Non fa che acuire quel senso di colpa che in qualche modo le vittime di abuso tendono a sperimentare e che le spinge spesso, troppo spesso, a non denunciare quanto subito. Non fa che alimentare, cioè, una mentalità viziata da quei retaggi culturali che rendono ancora tanto difficile parlare di violenza e abuso sessuale in modo consapevole, aperto a una autentica presa in carico del problema e alla creazione di una sensibilità sociale capace di contrastare fenomeni di questo genere.
E’ questo atteggiamento di accusa, infatti, uno degli elementi che, alimentando il senso di colpa delle vittime, spingono a nascondere e a tacere la violenza subita, impedendo quindi l’intervento pronto a loro sostegno e i provvedimenti necessari nei confronti dell’aggressore, che rimane così spesso libero di agire.
La prevenzione della violenza e degli abusi sessuali richiede un cambiamento di mentalità diffuso e quindi la responsabilità di tutti: perché solo una consapevolezza condivisa e matura può contribuire a creare un contesto realmente più sicuro, in cui le vittime trovino spazio di ascolto e sostegno, e le persone più vulnerabili siano circondate da autentiche pratiche di protezione e tutela.
Dr. Alessandra Campo