Potere, relazioni umane e abuso
Esiste un nesso tra abuso sessuale e abuso di potere che sempre più spesso tanto la letteratura scientifica, quanto il più ampio dibattito sul tema tendono a mettere in luce. Qui cercheremo di fornire un piccolo contributo per meglio comprendere in che termini il “potere” entri in gioco nelle relazioni tra persone e in che modo esso possa assumere un carattere abusivo. Siamo abituati a pensare il potere in connessione all’idea di sottomissione e limitazione della libertà dell’altro. Tuttavia, è qui necessario fare uno sforzo e provare a pensare la categoria di potere al di fuori di qualsiasi connotazione valoriale.
In via del tutto preliminare potremmo cioè dire: il potere di per se stesso non è né buono né cattivo, ma esiste in quanto elemento imprescindibile di qualsiasi relazione umana. Per capire meglio questa affermazione, possiamo rivolgerci al linguaggio e lasciarci guidare da esso. In Italiano il termine “potere” racchiude in sé almeno due accezioni: “essere-in-grado-di” fare qualcosa, e quella più immediata di “avere, esercitare una qualche forma di dominio su qualcuno”. Altre lingue riescono a distinguere meglio queste due accezioni: in inglese “being able/capable to” si distingue chiaramente dal termine “power”, e ancor di più il tedesco conosce tutta una serie di distinzioni terminologiche: können, Macht, Herrschaft… A ben guardare, tuttavia, queste due accezioni del termine “potere” non sono del tutto svincolate l’una dall’altra: proprio in quanto “è-in-grado-di” fare qualcosa, di operare e agire in relazione al mondo e agli altri, l’essere umano ha un “potere” su di essi. Ma allora, a questo livello il potere non è ancora definibile come qualcosa di giusto o sbagliato, di buono o cattivo: esso definisce piuttosto la modalità specifica in cui l’essere umano esiste ed entra in relazione con l’altro da sé. Non è questo il luogo per ripercorrere la molteplicità di contributi teorici a sostegno di questa argomentazione.
Tuttavia può essere utile, a questo punto della nostra riflessione, cedere la parola a un filosofo che del potere ha dato una definizione piuttosto interessante. Nel “Sofista”, Platone definisce il potere come la capacità «di influenzare un altro, o di essere influenzati da un altro» (Platone, Sofista, 247e). Secondo questa definizione, quindi, il potere non riguarda mai un singolo, ma almeno due soggetti posti in relazione. Non solo, ma il potere connota una capacità attiva (influenzare un altro) tanto quanto una passiva (essere influenzati da un altro), quindi il potere non riguarda mai il singolo individuo, ma l’individuo in quanto è in relazione a un altro.
In altri termini: non esiste potere che si dia al di fuori di una relazione e non esiste relazione in cui non si dia una dinamica di potere. Ancora di più: come insegna Foucault, è all’interno di una relazione di potere che i soggetti si costituiscono come tali. Gli esseri umani vivono, infatti, in una condizione imprescindibile di relazionalità reciproca e questa relazionalità si struttura attraverso differenziali di potere. Ogni soggetto ha un potere che gli deriva dal “patto sociale” in vigore nel contesto in cui agisce. Questo “patto sociale” può essere implicito (il patto educativo tra docente e studenti) o esplicito (come nel caso della delega politica che conferisce a un gruppo il potere di governare una comunità). Il differenziale di potere che così si crea è determinato da elementi oggettivi e soggettivi. Vi sono cioè dei tratti oggettivi che definiscono il potere di un soggetto su di un altro: l’età, il ruolo, le regole condivise (l’adulto e il bambino, il professore e lo studente, il superiore e la comunità…). A queste determinazioni fanno però da pendant sempre anche delle determinazioni soggettive: il bambino prova fiducia nei confronti dell’adulto che, per ragioni anagrafiche e fisiche è più forte di lui; lo studente “sa meno” del professore che gli insegna una certa disciplina e gli si affida per la propria formazione, e così via.
Non è difficile notare tuttavia che proprio qui, all'incrocio tra le determinazioni oggettive e quelle soggettive che definiscono le relazioni si può creare lo spazio per un esercizio abusivo del potere. Il potere è abusante quando i tratti soggettivi che determinano la relazione (fiducia, fragilità, minorità…) vengono sfruttati al di fuori del patto sociale condiviso, e poste al servizio di un autopotenziamento fine a se stesso. Hannah Arendt intende qualcosa di simile quando distingue il potere dalla violenza: quest'ultima si serve del soggetto come mezzo per ottenere determinati fini. È qui che il potere diviene abusivo, non è più propriamente “potere” ma, appunto, “violenza”. In questa prospettiva il “potente” si pensa e opera come l’oggetto, centro, fine ultimo della relazione. L’altro diventa strumento per i fini da me posti. A titolo di esempio: la studentessa o il giovane atleta non sono più i destinatari dello scopo educativo sancito dal patto vigente all’interno della classe o della squadra, ma possono diventare mezzo per la mia gratificazione di docente, di allenatore, anche a livello sessuale.
Affinché il differenziale di potere sempre presente nelle relazioni non si orienti ad azioni abusive è necessario ricorrere alla categoria della responsabilità. Perché chi esercita l’autorità che gli deriva dalla relazione (di potere) nella quale agisce, lo faccia rimanendo all’interno del patto sociale che regola tale relazione, e quindi non abusando la libertà su cui il potere viene esercitato, perché questo avvenga, dunque, chi esercita il potere deve definirsi e riconoscersi come responsabile. Non si tratta solo di essere responsabile per qualcuno, ma di riconoscersi responsabili “di fronte a” qualcuno. Il soggetto che nella relazione si trova in una posizione di potere la ottiene in virtù del suo essere in rapporto a un altro che lo rende responsabile, un altro che gli sta di fronte e gli chiede di “rispondere” appunto a un bisogno: il docente è responsabile di fronte agli studenti, in quanto capace di insegnare loro qualcosa che loro ancora non sanno; il sacerdote di fronte al fedele che gli confida le proprie difficoltà spirituali o che desidera accedere ai sacramenti; l’adulto di fronte al bambino che si affida a lui per essere nutrito, curato, cresciuto. Questo vuol dire rovesciare completamente il modo consueto di pensare le relazioni di potere: la responsabilità e il potere non vanno pensati a partire dalla fragilità di chi ho davanti, ma a partire dal mio potere di rispondere a tale fragilità: sono io, in quanto potente, il soggetto di questa responsabilità, sono io che posso esercitarla o meno.
A ben guardare nei casi di abuso, per esempio di abuso sessuale di minori, il soggetto della responsabilità, colui che ha il potere, si percepisce ed è percepito piuttosto come oggetto: spesso nelle distorsioni cognitive degli autori di abusi sessuali alla vittima, al minore, si imputano azioni che avrebbero sollecitato l’abuso, proprio attraverso il suo affidarsi o semplicemente per la sua incapacità di ribellarsi. E in maniera non molto diversa, a livello di opinione comune, questo modello cognitivo è alla base del cosiddetto victim blaming: “se l’è andata a cercare”; “se si veste così non può che provocare certi comportamenti”; “non si è mai ribellato alle molestie!”. Questa prospettiva attribuisce alla parte vulnerabile della relazione il potere che è invece in carico a colui che esercita il potere, poiché per età, ruolo o forza fisica è in grado superare i giusti limiti della relazione stessa. Ma poter superare i limiti vuol dire anche essere capace di mantenerli: nella relazione, chi ha la posizione di potere ha anche la responsabilità di mantenere i giusti confini della relazione stessa proprio perché lui ha il potere di farlo.
Per concludere: le relazioni umane in quanto tali sono strutturate attorno a dinamiche di potere e i soggetti di una relazione non possono che porsi in rapporto reciproco in base a esse, siano esse implicitamente determinate da rapporti di età o dai ruoli all’interno di un gruppo sociale, siano esse esplicitamente codificate (la Costituzione di una nazione, o un contratto di lavoro, per esempio). Ma il potere che in questo modo entra in gioco è un poter-fare che rende chi lo esercita responsabile di fronte all’altro su cui e in relazione a cui agisce. È questa responsabilità, questo essere chiamato a rispondere del proprio potere che stabilisce il confine – le cosiddette boundaries – all’interno del quale il potere può essere esercitato in forma non abusiva, laddove il libero esercizio del mio poter-fare non eccede nella violenza e nell’abuso, ma risponde, appunto, al bisogno, alla fragilità e alla vulnerabilità di chi mi sta di fronte.